(Urtovox/Audioglobe – 2009)
Beatrice Antolini è Beatrice Antolini. Tautologia doverosa per un ambito, quello della musica italiana, dove i riferimenti sono una prassi obbligata e talvolta estenuante per attribuire giudizi di merito e di valore. In questo mondo asfittico, che per molti versi sta scomparendo, l’artista di Macerata propone la sua personalissima via di fuga: asciuga le emozioni spese nell’esordio di un paio di anni fa, Big Saloon, e si ripresenta con una serie di canzoni incisive, chiaroscurali, ossessive e stringate, che vanno dai sussurri poco rassicuranti di Morbidalga alle esplosioni scomposte di Funky Show.
A Due, concepito, scritto e suonato in semisolitudine, lambisce tanto il folk quanto il rock’n’roll, abbraccia la poesia soffusa e l’urlo, non si fa problemi ad accettare, in uno spazio sonoro limitato a voce, chitarra e qualche altro alambicco, la pulsazione di pianoforti e percussioni momentanee, oltre a qualche stridore lontano, notturno. Risultato: una serie di brani a impressione, in cui le melodie si perdono e riaffiorano, anni Cinquanta e futuro si mescolano in maniera fluida, perché ben condotta da un soggetto che non vuole ricalcare nulla, solo esprimersi. Come un altro outsider italiano, Marco Fasolo dei Jennifer Gentle (non a caso presente per i missaggi finali), la Antolini ha tutte le carte in regola per abbandonare sentimenti di rivalsa o appartenenza nei confronti di qualsiasi scena. Forte delle sue radici teatrali, può permettersi vallate (Clear My Eyes), soffusioni (Modern Lover) e una psichedelia un po’ minacciosa (Taiga) senza vacillare. L’uso dell’inglese è una scelta naturale e condivisibile, che non sminuisce la forza lirica dei testi; i difetti: una eccessiva frammentazione delle forme, su cui potrebbe ancora lavorare con profitto – sono dettagli di un album comunque smagliante. In un universo di chanteuses, insomma, Beatrice Antolini rappresenta una delle poche rocker italiane davvero convincenti. Segno, se non di rinascita del panorama nostrano, almeno della sua attuale imprevedibilità.
(John Vignola per il Mucchio Selvaggio)
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